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I toni polemici
non esorcizzano l'astensione

Di Massimo Franco
Tratto da “Corriere della Sera” del 20.6.2006

Gli elettori saranno più di 47 milioni. Ma sul fatto che si tratti di un dato teorico, nessuno ha dubbi. Il referendum sul federalismo di domenica e lunedì prossimi continua ad essere insidiato dall'ombra di un astensionismo che potrebbe superare quello sulla fecondazione assistita del 2005. Allora, andò alle urne un quarto dell'elettorato. Stavolta, l'incognita è, se possibile, maggiore. E il tentativo di Silvio Berlusconi e della Lega di politicizzarlo, di <<dare una lezione alla sinistra del "no">>, appare più un atto dovuto che la prova di convinzioni profonde. La prima pagina della Padania ha inneggiato alla vittoria dei "fratelli catalani" che hanno approvato l'autonomismo in Spagna. Ma a complicare la campagna dei "sì" sembra proprio l'ipoteca del partito di Umberto Bossi sulla riforma costituzionale. L'appello fatto ieri dal capo dell'opposizione non gronda ottimismo, ma preoccupazione. Berlusconi usa la pedagogia della paura per mobilitare un fronte moderato che pure dopo le elzioni del 10 aprile si è dimostrato poco reattivo a questo tipo di appelli. <<Poi non ci si potrà lamentare che le cose non funzionano, se si è andati al mare e non a votare per il "sì">>, avverte il Cavaliere.

L'ex premier capta una stanchezza diffusa dopo "troppe campagne elettorali", e teme il non voto. Il suo ha l'aria di un rimbrotto preventivo: una recriminazione col sapore dell'autodifesa, di fronte ad un risultato negativo. E non soltanto perchè l'esortazionea impartire una "lezione alla sinistra" potrebbe rivelarsi un boomerang: il vero cruccio berlusconiano è la diaspora del centrodestra. Ormai, nessuno si sente di escludere che una bocciaturadel federalismo voluto dalla Lega, acceleri la strategia delle "mani libere" di Bossi. I segnali preferendari sono stati confusi ma indicativi. si è andati dall'ipotesi di una trttativa separata dei lumbard con l'Unione, alle minacce di un rigurgito secessionista. Risposte decise comunque in solitudine; e dunque tali da creare reazione a catena, che potrebbero acuire la crisi di una Casa delle libertà disorientata dalla sconfitta di aprile.

Certo, l'ipotesi che dalle urne possa spuntare una sorpresa non va scartata a priori. La campagna contro il governo vede allineati tutti i partiti del centrodestra, Lega in testa. E romano Prodi mette le mani avanti, spiegando che il referendum non può essere considerato "una rivincita" nei confronti del suo Esecutivo; e che gli italiani "non sono stati bene informati sui costi reali della riforma". L'impressione, tuttavia, è che nonostante gli sforzi dei due schieramenti, la scadenza di domenica e lunedì sia seguita con disincanto, se non con disinteresse; e che i toni esagerati di alcuni fautori del "sì" e del "no" vengano accolti con freddezza: come se si trattasse di qualcosa che mobilita sopratutto la classe dirigente. La vera insidia referendaria può rivelarsi questa: che non essendo necessario un quorum, a decidere la sorte della Costituzione finisca per essere una minoranza. Nel 2001, al primo referendum confermativo, votò il 34 per cento. Ma già bissare quella percentuale, si dice adesso, sarebbe un miracolo di partecipazione.

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