Una angoscia inespressa tormenta
gli spiriti più avvertiti. Fra pochi giorni - il 25 e 26
giungo - siamo chiamati a votare sulla Costituzione, ma l'appuntamento
sembra avvicinarsi nella distrazione e nella stanchezza politica
degli italiani. Pochi i manifesti sui muri, dove dominano, peraltro,
i Sì berlusconiani, grazie anche a una dovizia inesauribile
di mezzi; pochi i comizi; deludenti e noiosi i dibattiti e gli
spot in tv.
I partiti o, meglio, i "padroni delle liste", così
accaniti durante la campagna elettorale e poi, nell'ultimo mese,
rabbiosamente impegnati nella sprtizione di poltrone, poltroncine
e sedie aggiunte, deleghe "spacchettate" e quant'altro,
dedicano queste ore sopratutto a opere di consolazione degli afflitti,
alias di quanti, per l'uno o l'altro motivo, si son visti esclusi
dalla prima scelta parlamentare o ministeriale. Si moltiplicano
le promesse, fatte balenare magari a più d'uno, per le
cariche di sottogoverno. il voto del 25-26 viene dopo, quasi si
trattasse di un altro referendum sulla caccia.
Si distinguono, per contro, per il loro impegno i valenti giuristi
del Comitato "Salviamo la Costituzione", gli intellettuali
del movimento "Libertà e Giustizia" ed alcune
personalità politiche consapevoli della posta in gioco,
da Oscar Luigi Scalfaro a Piero Fassino. La sottovalutazione viene
da lontano, almeno da quando il governo di centro destra presentò
il progetto al Parlamento e autorevoli leader della sinistra si
premurarono subito di rassicurare quanti si allarmavano affermando
che era solo una mossa strumentale di Berlusconi per dare un contentino
a Bossi: "vedrete, si limiterannoa a votarlo in prima lettura
e tutto verrà poi rinviato alla prossima Legislatura".
Quando, invece, le Camere aprovarono in seconda e definitiva lettura
i soliti saloni appesero il loro ottimismo alla certezza che,
comunque, il referendum popolare avrebbe certamente spazzato via
quella sconcezza. Ora, infine, per giustificare tanta accidia
politica, sembrano affidarsi al basso profilo con cui la destra
affronterebbe, a loro avviso, la campagna referendaria: "Se
Berlusconi non bombarda l'opinione pubblica con i soliti effetti
speciali, vuol dire che dà per scontata la sconfitta".
E con questa "speranzella" si tranquillizzano, senza
riflettere che, se la strategia del centrodestra rifugge dalle
tematiche costituzionali più impegnative, controverse e
di largo impatto, una ragione c'è: far credere agli elettori
che si tratta di ridurre il numero dei deputati, eliminare l'inutile
doppione perditempo di Camera e senato, diminuire i costi del
parlamentarismo. Tutti slogan fasulli ma di pronta resa, immediata
comprensione, scontata popolarità per una opinione pubblica
disinformata e abbandonata colpevolmente a se stessa. Illusoria
suona, infine, l'ipotesi ventilata in qualche anticamera di palazzo
Chigi secondo cui se Prodi e gli esponenti della maggioranza si
tengono defilati dalla contesa, alcuna conseguenza ne verrà
per il governo, pur se prevalesse il Sì. Auguriamoci che
un simil esito non sussista, poichè se, per disavventura
immane, si verificasse l'ondata di delegittimazione costituzionale,
suffragata dal voto, risulterebbe assai difficile arginabile.
Non appare, infine, di gran conforto il dibattito, se pur ristretto
nel'ambito di una audience qualificata, che si sta svolgendo sulle
opzioni di modifica della Costituzione, una volta respinto il
pasticcio Calderoli. Se è vero che la stragrande maggioranza
degli studiosi parteggia per il No e pospone a questo l'eventuale
nuova riforma, è altrettanto evidente che il messaggio
percepito dall'italiano della strada è, nel migliore dei
casi, quello di un dibattito di ingegneria istituzionale (dal
ruolo del premier a quello di Presidente della repubblica, dalle
sovrapposizioni delle legislazioni concorrenti alla composizione
della Consulta, dalle funzioni amministrative dei comuni ai nuovi
compiti delle regioni). tutte cose che non lo appassionano nè
gli permettono di valutare chiaramente la posta in gioco. in fondo,
possono dirsi, se la Costituzione è un ingranaggio che
non funziona più se la vedano loro come aggiustarla.
Ma non è così. La posta è ben più
alta. riguarda l'Italia, la sua storia, il suo futuro, il tipo
di Paese che i cittadini vogliono, l'eguaglianza dei diritti,
le garanzie di un democrazia liberle opposta alle dittature delle
maggioranze, sia pure di volta in volta alternative, l'unità
della Patria. Non temiamo, dunque, di essere accusati di retorica
patriottica se cominciamo prorpio da qui ricordando agli immemori
quante speranze, sangue, sacrifici e sofferenze sia costata l'unificazione
dell'Itaia, da Risorgimento a Vittorio Veneto e la riconquista
della democrazia e della libertà, dalla Resistenza alla
Costituzione del 22 dicembre 1947.
Butteremo tutto a mare per inseguire i vaneggiamenti leghisti,
le pulsioni secessioniste di una infima minoranza tramutate in
falso federalismo con la melleveria di Berlusconi e il pusillanime
assenso di fini e Casini? La storia di un paese ha un valore,
un'intima coerenza che l'ha animata per generazioni e che non
può essere travolta e bistrattata se non a scapito della
sua identià profonda.
Non più italiani, torneremmo in un arco di tempo non troppo
lungo, a sentirci sopratutto lombardi e siciliani, veneti e pugliesi.
I modelli federali esistenti - in primo luogo il tedesco e l'americano
- non mettono certamente in gioco l'unità della Nazione.
Nella Costituzione germanica, ad esempio, c'è solo l'elenco
delle competenze esclusive dello Stato, mentre la facoltà
dei leader di legiferare sul resto è temperata dalla possibilità
del Parlamento di intervenire quando lo reputa necessario per
garantire l'unità giuridica ed economica del Paese o l'uguaglianza
dei cittadini. Negli Stati Uniti fin dall'800 la Corte Suprema
legifera imponendo la "supremacy clause2, la clausola di
supremazia che supera ogni istanza federale. La stessa filosofia
ispira la pienezza legislativa del Congresso.
La devoluzione leghista che si dovrebbe approvare è tesa,
invece, a strappare allo Stato affidandoli alle regioni, diritti
esclusivi di legislazione. Qui è la miccia dell'esplosione
dell'unità nazionale. Si dice - ed è già
gravissimo - che la minaccia riguarderebbe solo tre settori: la
sanità, la scuola e la polizia regionale. Inutile dilungarsi
qui su cose già dette: avremmo, malgrado risibili clausole
di salvaguardia, venti sistemi sanitari diseguali,venti sistemi
scolastici con svariate ore di materie "locali", dal
dialetto alle costumanze folcloristiche, venti polizie regionali
da affiancare ai troppi corpi già esistenti (Ps, Carabinieri,
GdF, polizia penitenziaria, forstale, municipale). Ma, oltre a
ciò, la costituzione berlusconiana-leghista affida alla
competenza esclusiva della legislazione regionale tutte quelle
materie che non siano espressamente riservate allo Stato. Questo
si vedrebbe, quindi, sottratte l'agricoltura, il turismo, il commercio,
l'artigianato, quasi tutta l'industria, salvo l'energia. Non ci
sarebbe spazio per quasi nessuna politica nazionale, dalla promozione
del territorio alla rappresentanza degli interessi italiani in
sede europea e internazionale. Tanto varrebbe seguire l'esempio
balcanico che in poco tempo ha variegato la carta geografica con
la riemersione di serbia, Bosnia, Montenegro, Slovenia, Sangiaccato,
Macedonia, Kosovo e via continuando.
Sotto un profilo più generale la carta del 1947 risulterebbe
praticamente semicancellata con 53 articoli annullati o riscritti
e la prima parte, apparentemente salva ma sostanzialmente insidiata.
Sul vulnus parziale dela modifica del titolo V, improvvidamente
inferto nel 2001 dal centrosinistra, si è così innestato
un ben più corposo e dirompente tsunami. Quel che è
peggio sta passando nella mentalità corrente l'idea che
la costituzione sia una legge come tutte le altre, sì che
ogni maggioranza, vieppiù in un istema di alternanza, può,
di volta in volta, scomporla e ricomporla a seconda delle sue
specifiche aspirazioni, convenienze tattiche, contingenze impreviste.
Di qui la tendenza ada accompagnare l'alternanza elettorale alla
dittatura della maggioranza che si sente officiata a tutto occupare
e a tutto stravolgere, proprio in contrapposizione al costituzionalismo
moderno, imperniato sulla definizione dei limiti e alla separazione
dei singoli poteri istituzionali così da garantire diritti
e regole comuni per tutti i cittadini. Qui sta, appunto, il significato
fondamentale della Costituzione oggi in pericolo: una tavola,
elaborata in una stagione di alta intemperie delle forze politiche,
che dai cattolici ai comunisti, dai liberali ai socialisti seppero
definire valori e principi capaci assicurare la convivenza civile
degli italiani in anni, dal '47 ad oggi, attraversati da un epocale
scontro di civiltà, da guerre, da lotte sociali e politiche
asperrime, da sconvolgimenti economici e sociali profondissimi,
senza che mai venissero meno le garanzie di democrazia e di libertà,
la correttezza istituzionale, le possibilità di introdurre
nuovi diritti prima inediti (dalla salute al divorzio, dal codice
di famiglia ll'aborto). Quel quadro cosituzionale ha retto a tutte
le prove e va nella sua sostanza strenuamente difeso.
Se qualche inceppo funzionale si è rivelato col tempo nulla
impedisce che si introducano modifiche di razionalizzazione opportunamente
concordate. Sopratutto va tenuto presente che le falle di governabilità
che devastano la vita politica italiana non dipendono da arretratezze
costituzionali ma dalla dissennatezza di una legge elettorale
che esula per la sua stesura dai dettami della Carta.
Ormai siamo al dunque. Nel 390 a.C. i romani dormienti, mentre
i Galli di Brenno stavano per farli a pezzi, vennero risvegliati
in tempo dallo schiamazzare delle oche del Campidoglio. Chi sveglierà
ora gli stanchi combattenti dell'Ulivo?
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