Parte la "controriforma
Castelli". Come nella pubblica amministrazione solo l´organizzazione
militare, le Procure dal 18 giugno saranno gerarchizzate "a
piramide". In cima, il procuratore "padre-padrone"
diventerà il solo titolare dell´azione penale. Dal
19 giugno tutte le azioni disciplinari diventeranno obbligatorie.
Saranno sufficienti un esposto o una denuncia.
La scelta di non fermare
il nuovo ordinamento giudiziario è una decisione di natura
esclusivamente politica e non tecnica. Sono, dunque, le ragioni
di quella decisione politica che occorre valutare. Era possibile
fermare la controriforma con un decreto legge del governo.
Come osserva sul Sole-24 ore il presidente emerito della Corte
costituzionale Valerio Onida, sarebbe stato legittimo un provvedimento
d´urgenza. C´era il presupposto della necessità.
Si è già deciso di modificare quelle norme giudicate
rovinose. Prima che producano effetti – in ipotesi, irreversibili
– si congelano con un decreto legge.
Naturalmente è corretta anche la strada imboccata, su sollecitazione
del Quirinale, dal governo. Disegno di legge (sarà approvato
oggi dal Consiglio dei ministri). Quattro articoli soltanto. Convinzione
di ottenere dal Parlamento entro il 28 luglio (entrano in vigore
le norme che separano le carriere di magistratura requirente e
giudicante) il rinvio a un anno del "pasticcio Castelli".
Poi, corsia preferenziale alle Camere per approvare le modifiche
e il nuovo corso.
Legittime entrambe le scelte tecniche, decide la convenienza politica.
Bisogna chiedersi, allora: quell´utilità politica
(non forzare la situazione, prendere tempo, auspicare un ipotetico
dialogo con l´opposizione) è nel perimetro di questioni
che chiedono di essere affrontate per offrire al Paese una giustizia
più rapida, efficiente e "giusta" o casca oltre
quel perimetro, nell´equilibrio di forze che, a inizio di
legislatura, segna i rapporti tra le istituzioni; tra la maggioranza
e opposizione; tra governo e Parlamento? Sembra di poter dire
– si scuserà la nettezza un po´ brutale –
che le ragioni della giustizia non sono oggi in cima alle preoccupazioni
del Quirinale e del governo.
Il capo dello Stato, firmando il decreto legge di sospensione
di una riforma «epocale» molto cara al governo uscente,
sarebbe andato incontro a un´altra violenta polemica con
il centrodestra. La terza in meno di un mese, dopo quella nata
al momento della sua elezione unilaterale e della clemenza concessa
a Ovidio Bompressi. Nel necessario sforzo di diventare il garante
di tutto il sistema politico, Giorgio Napolitano ritiene di non
dover affrontare l´ennesimo braccio di ferro con un´opposizione
che non gli avrebbe risparmiato nulla per delegittimarlo come
presidente "super partes". Per la bisogna, usa con sapienza
il dubbio di legittimità per il provvedimento d´urgenza.
Consiglia così al governo una strategia soft, parlamentare,
dialogante.
Al governo conviene accettare il consiglio. È nella stessa
situazione di stallo del capo dello Stato. Non vuole affrontare
l´aggressione dell´opposizione. Non si sente ancora
saldo. Nella conversione di un decreto legge, i tempi in aula
non sono contingentabili, e la maggioranza teme (soprattutto al
Senato) le pratiche ostruzionistiche del centrodestra. Per di
più, una volta decaduto, il decreto non potrebbe essere
ripresentato. La "saggezza parlamentare" consiglia il
ministro Mastella a battere la strada del "dialogo"
che, in questo caso, appare una formula alquanto vana: mai il
centrodestra accetterà di manomettere una riforma che,
scardinando l´autonomia della magistratura, mette sotto
controllo – «finalmente» – la giurisdizione
e i giudici.
Se lo scenario è attendibile, si può concludere
che questa storia trova l´ordito dentro la politica (e nella
sua fragilità) e al di là della giustizia (lontano
dalla funzionalità di un essenziale servizio pubblico).
È giusto che sia così. La politica deve decidere
come organizzare un´essenziale funzione dello Stato. Ma,
se affidato ai desideri e ai timori dei politici, se imprigionato
in convenienze congiunturali, il problema non troverà mai
soluzione. Continuerà a essere, come è da quindici
anni a questa parte, soltanto inconcludente battaglia tra poteri
dello Stato (così è stata evocata ieri dal capo
dello Stato e dal ministro della Giustizia nella loro prima riunione
con il Csm).
Per uscire dall´impasse, politica e magistratura devono
essere capaci di lanciarsi una sfida non "muscolare",
ma culturale. Devono riappropriarsi del proprio ruolo e della
propria funzione più autentici, gettando alle ortiche reciprocamente
luoghi comuni e pigrizie intellettuali. La politica (anche il
centrosinistra, of course) non si accorge che la crescita del
potere giudiziario non è un´anomalia italiana. Non
svela la volontà di potere della consorteria togata (come
ha fatto credere la propaganda berlusconiana) ma racconta la crisi
dello Stato e della democrazia. È sotto gli occhi di tutti.
Si invoca la presenza del giudice in ogni angolo della nostra
vita privata e pubblica. Si chiede il suo intervento per regolare
e decidere dei limiti della ricerca scientifica e dell´uso
delle terapie sanitarie, per conciliare i conflitti di lavoro
e le controversie familiari, per attribuire responsabilità
e pene a chi ha calpestato, anche in un altro Paese, l´umanità
e i diritti umani. Non si bussa più alle porte dei tribunali
soltanto per ottenere una decisione su uno specifico caso ma,
a partire da uno specifico caso, per ottenere una sentenza che
possa valere come paradigma di una politica pubblica.
In questo senso (e se naturalmente si escludono le sue personali
avventure giudiziarie) Berlusconi è stato in questi anni
il miglior sostenitore della magistratura, un appassionato e inconsapevole
sponsor. Povero di strategie politiche ed economiche, ha investito
soltanto nella risorsa penale degradando ogni politica sociale
a politica criminale; quindi, ad affare per pubblici ministeri
e giudici. Ogni conflitto o fenomeno – immigrazione, tossicodipendenze,
libertà di cura, violenza giovanile, crisi della famiglia,
ora finanche la trasparenza del campionato di calcio – è
stato consegnato al lavoro della magistratura, nonostante il fallimento
di questo controllo che ha unicamente la prigione nel suo orizzonte.
Stretto in un berlusconismo senza Berlusconi, anche il governo
di oggi, come la maggioranza che lo sostiene, non comprende che
la crisi del rapporto con la magistratura non indica un conflitto
con un potere dello Stato. È altro. Parla della delegittimazione
della democrazia. Invoca una modernizzazione dello Stato. Chiede
politiche pubbliche che possano sottrarre la totalità della
nostra vita all´intervento invasivo e cruento di una magistratura
diventata il custode superstite dei nostri diritti. Impone alla
politica un passo in avanti. Non per calpestare l´autonomia
della magistratura, come si sono illusi il centrodestra e la Bicamerale.
Ma per riprendersi quel che è suo: la possibilità
di declinare le domande dei cittadini in politiche pubbliche affidate
all´azione dello Stato e di fare della giustizia –
essenziale servizio pubblico – un´opportunità
per i cittadini e per il Paese. È questa la sfida che la
politica deve lanciare alla magistratura e che la magistratura
deve essere in grado di accettare, come ben sanno le menti più
fini tra le toghe.
La riforma del "pasticcio Castelli" può diventare,
da «piccolo affare di categoria», occasione per migliorare
il livello di civiltà e opportunità per dare maggiore
competitività al sistema. Perché – lo ha detto
il segretario nazionale dell´Anm, Nello Rossi – «un
Paese senza rapporti giuridici certi e tutelati in tempi ragionevoli
da giudici indipendenti non attira investimenti esteri, scoraggia
le intraprese interne, finisce con il vivere in un clima nocivo
di permanente insicurezza dei beni fondamentali della vita, rischia
di divenire una negativa eccezione nella comunità di cui
è parte e imbocca la via del declino e della marginalità
nel contesto internazionale».
È questa la sfida che attende oggi la politica e la magistratura
italiana. O ci si vuole ancora confondere i pensieri con il paradigma
culturale che ci ha lasciato in eredità Silvio Berlusconi,
il "figlio" prediletto di Tangentopoli?
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