rosa nel pugno
 Edicola
 

 



 


la correzione al rallentatore

Di Giuseppe D'Avanzo
Tratto da “La Repubblica” del 9.6.2006

Parte la "controriforma Castelli". Come nella pubblica amministrazione solo l´organizzazione militare, le Procure dal 18 giugno saranno gerarchizzate "a piramide". In cima, il procuratore "padre-padrone" diventerà il solo titolare dell´azione penale. Dal 19 giugno tutte le azioni disciplinari diventeranno obbligatorie. Saranno sufficienti un esposto o una denuncia.

La scelta di non fermare il nuovo ordinamento giudiziario è una decisione di natura esclusivamente politica e non tecnica. Sono, dunque, le ragioni di quella decisione politica che occorre valutare. Era possibile fermare la controriforma con un decreto legge del governo.
Come osserva sul Sole-24 ore il presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida, sarebbe stato legittimo un provvedimento d´urgenza. C´era il presupposto della necessità. Si è già deciso di modificare quelle norme giudicate rovinose. Prima che producano effetti – in ipotesi, irreversibili – si congelano con un decreto legge.
Naturalmente è corretta anche la strada imboccata, su sollecitazione del Quirinale, dal governo. Disegno di legge (sarà approvato oggi dal Consiglio dei ministri). Quattro articoli soltanto. Convinzione di ottenere dal Parlamento entro il 28 luglio (entrano in vigore le norme che separano le carriere di magistratura requirente e giudicante) il rinvio a un anno del "pasticcio Castelli". Poi, corsia preferenziale alle Camere per approvare le modifiche e il nuovo corso.
Legittime entrambe le scelte tecniche, decide la convenienza politica. Bisogna chiedersi, allora: quell´utilità politica (non forzare la situazione, prendere tempo, auspicare un ipotetico dialogo con l´opposizione) è nel perimetro di questioni che chiedono di essere affrontate per offrire al Paese una giustizia più rapida, efficiente e "giusta" o casca oltre quel perimetro, nell´equilibrio di forze che, a inizio di legislatura, segna i rapporti tra le istituzioni; tra la maggioranza e opposizione; tra governo e Parlamento? Sembra di poter dire – si scuserà la nettezza un po´ brutale – che le ragioni della giustizia non sono oggi in cima alle preoccupazioni del Quirinale e del governo.
Il capo dello Stato, firmando il decreto legge di sospensione di una riforma «epocale» molto cara al governo uscente, sarebbe andato incontro a un´altra violenta polemica con il centrodestra. La terza in meno di un mese, dopo quella nata al momento della sua elezione unilaterale e della clemenza concessa a Ovidio Bompressi. Nel necessario sforzo di diventare il garante di tutto il sistema politico, Giorgio Napolitano ritiene di non dover affrontare l´ennesimo braccio di ferro con un´opposizione che non gli avrebbe risparmiato nulla per delegittimarlo come presidente "super partes". Per la bisogna, usa con sapienza il dubbio di legittimità per il provvedimento d´urgenza. Consiglia così al governo una strategia soft, parlamentare, dialogante.
Al governo conviene accettare il consiglio. È nella stessa situazione di stallo del capo dello Stato. Non vuole affrontare l´aggressione dell´opposizione. Non si sente ancora saldo. Nella conversione di un decreto legge, i tempi in aula non sono contingentabili, e la maggioranza teme (soprattutto al Senato) le pratiche ostruzionistiche del centrodestra. Per di più, una volta decaduto, il decreto non potrebbe essere ripresentato. La "saggezza parlamentare" consiglia il ministro Mastella a battere la strada del "dialogo" che, in questo caso, appare una formula alquanto vana: mai il centrodestra accetterà di manomettere una riforma che, scardinando l´autonomia della magistratura, mette sotto controllo – «finalmente» – la giurisdizione e i giudici.
Se lo scenario è attendibile, si può concludere che questa storia trova l´ordito dentro la politica (e nella sua fragilità) e al di là della giustizia (lontano dalla funzionalità di un essenziale servizio pubblico). È giusto che sia così. La politica deve decidere come organizzare un´essenziale funzione dello Stato. Ma, se affidato ai desideri e ai timori dei politici, se imprigionato in convenienze congiunturali, il problema non troverà mai soluzione. Continuerà a essere, come è da quindici anni a questa parte, soltanto inconcludente battaglia tra poteri dello Stato (così è stata evocata ieri dal capo dello Stato e dal ministro della Giustizia nella loro prima riunione con il Csm).
Per uscire dall´impasse, politica e magistratura devono essere capaci di lanciarsi una sfida non "muscolare", ma culturale. Devono riappropriarsi del proprio ruolo e della propria funzione più autentici, gettando alle ortiche reciprocamente luoghi comuni e pigrizie intellettuali. La politica (anche il centrosinistra, of course) non si accorge che la crescita del potere giudiziario non è un´anomalia italiana. Non svela la volontà di potere della consorteria togata (come ha fatto credere la propaganda berlusconiana) ma racconta la crisi dello Stato e della democrazia. È sotto gli occhi di tutti. Si invoca la presenza del giudice in ogni angolo della nostra vita privata e pubblica. Si chiede il suo intervento per regolare e decidere dei limiti della ricerca scientifica e dell´uso delle terapie sanitarie, per conciliare i conflitti di lavoro e le controversie familiari, per attribuire responsabilità e pene a chi ha calpestato, anche in un altro Paese, l´umanità e i diritti umani. Non si bussa più alle porte dei tribunali soltanto per ottenere una decisione su uno specifico caso ma, a partire da uno specifico caso, per ottenere una sentenza che possa valere come paradigma di una politica pubblica.
In questo senso (e se naturalmente si escludono le sue personali avventure giudiziarie) Berlusconi è stato in questi anni il miglior sostenitore della magistratura, un appassionato e inconsapevole sponsor. Povero di strategie politiche ed economiche, ha investito soltanto nella risorsa penale degradando ogni politica sociale a politica criminale; quindi, ad affare per pubblici ministeri e giudici. Ogni conflitto o fenomeno – immigrazione, tossicodipendenze, libertà di cura, violenza giovanile, crisi della famiglia, ora finanche la trasparenza del campionato di calcio – è stato consegnato al lavoro della magistratura, nonostante il fallimento di questo controllo che ha unicamente la prigione nel suo orizzonte.
Stretto in un berlusconismo senza Berlusconi, anche il governo di oggi, come la maggioranza che lo sostiene, non comprende che la crisi del rapporto con la magistratura non indica un conflitto con un potere dello Stato. È altro. Parla della delegittimazione della democrazia. Invoca una modernizzazione dello Stato. Chiede politiche pubbliche che possano sottrarre la totalità della nostra vita all´intervento invasivo e cruento di una magistratura diventata il custode superstite dei nostri diritti. Impone alla politica un passo in avanti. Non per calpestare l´autonomia della magistratura, come si sono illusi il centrodestra e la Bicamerale. Ma per riprendersi quel che è suo: la possibilità di declinare le domande dei cittadini in politiche pubbliche affidate all´azione dello Stato e di fare della giustizia – essenziale servizio pubblico – un´opportunità per i cittadini e per il Paese. È questa la sfida che la politica deve lanciare alla magistratura e che la magistratura deve essere in grado di accettare, come ben sanno le menti più fini tra le toghe.
La riforma del "pasticcio Castelli" può diventare, da «piccolo affare di categoria», occasione per migliorare il livello di civiltà e opportunità per dare maggiore competitività al sistema. Perché – lo ha detto il segretario nazionale dell´Anm, Nello Rossi – «un Paese senza rapporti giuridici certi e tutelati in tempi ragionevoli da giudici indipendenti non attira investimenti esteri, scoraggia le intraprese interne, finisce con il vivere in un clima nocivo di permanente insicurezza dei beni fondamentali della vita, rischia di divenire una negativa eccezione nella comunità di cui è parte e imbocca la via del declino e della marginalità nel contesto internazionale».
È questa la sfida che attende oggi la politica e la magistratura italiana. O ci si vuole ancora confondere i pensieri con il paradigma culturale che ci ha lasciato in eredità Silvio Berlusconi, il "figlio" prediletto di Tangentopoli?

segnalaci
le tue iniziative
 

 
Sdi home